Sarebbe stato più convincente chiamarla “giornata della famiglia”, senza ricorrere al solito tecnicismo pubblicitario di matrice anglosassone; al di là del cavillo linguistico, l’appuntamento fissato per il 12 aprile mantiene più che mai il suo carattere di forte richiamo per tutta la popolazione cattolica italiana. Sarà la giornata in cui verrà ribadito il no lanciato dalla CEI ai Dico, come se non fosse stata sufficiente la Nota emanata prima delle festività pasquali. Una posizione, quella della Chiesa, giudicata troppo intransigente, fintanto ingerente nelle questioni di politica interna. La questione dei Dico, o per toglierci dalla palude degli acrostici, delle “coppie di fatto”, segna senza dubbio un scontro tra morale cattolica e laicismo dello Stato, ed ancora più in profondità, tra evoluzione civile e dubbi di coscienza.
Gianni Rossi Barilli, nel suo editoriale pubblicato nel “Manifesto” (29/03/07), sottolinea come l’Italia sia «l’ultimo grande paese del vecchio continente che rifiuti ancora… di trarre alcune tra le più importanti conseguenze legislative della rivoluzione dei costumi del secondo Novecento.» Quelle innovazioni la cui esperienza in Europa Dino Boffo di “Avvenire” giudica «amare». I Dico sono stati definiti largamente come “matrimoni di serie B”, facendo leva sulla qualità dell’unione, giudicata un facile compromesso privo di fondamenti spirituali, una scorciatoia insomma che aprirebbe la strada, ad esempio, alla legalizzazione delle convivenze gay.
Ed ecco il punto focale della avversione della Cei al progetto di legge proposto da duo Bindi-Pollastrini: l’apertura al riconoscimento delle coppie omosessuali.
Non importa che i pacs offrano piccoli vantaggi anche a semplici conviventi eterosessuali, tra l’altro non necessariamente legati da sentimenti di amore, ciò che conta è che venga ribadita, per citare la Nota della Cei, la «insuperabilità» della differenza sessuale nell’ambito della costituzione di un nucleo familiare. In una lunga intervista pubblicata su “Avvenire” (29/03/07), Monsignor Luciano Monari sottolinea il vizio di fondo della legalizzazione delle unioni omosessuali «che si basa sull’ideologia del genere, secondo la quale la dimensione della sessualità diventa fondamentalmente irrilevante dal punto di vista giuridico» Al contrario – continua mons. Monari – «noi riaffermiamo che la realizzazione autentica della persona non può esistere se non nella polarità sessuale e che l’assunzione di questa polarità è una ricchezza infinita per la società dal punto di vista culturale e dal punto di vista affettivo». I riflettori restano puntati sul quel concetto di libertà che non può prevedere il riconoscimento del proprio naturale orientamento sessuale: scrive Dino Boffo nel suo editoriale «la libertà è sacra, eppure il diritto esiste non per dare copertura a qualunque aspirazione individuale o bizzarria, ma risposte pubbliche a esigenze che vanno al di là della dimensione privata». Gli fa eco mons. Monari «se uno pensa che la coscienza sia quello che istintivamente mi viene facile fare o quello che corrisponde ai miei gusti e alle mie preferenze, siamo su una strada sbagliata. Ma se la coscienza è un giudizio che viene dato sulla moralità dei comportamenti, a partire dalle motivazioni che li verificano come comportamenti buoni o cattivi, credo che la formazione della coscienza sia il dovere di ogni persona umana».
I Dico, inoltre, sarebbero incostituzionali secondo una lettura dell’art. 29 della Costituzione, quell’articolo che sancisce che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale, fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.” Tenuto ben in vista che il suddetto articolo non fa riferimento all’orientamento sessuale dei coniugi, il problema della incostituzionalità delle “coppie di fatto” viene a mancare laddove esse non verrebbero inquadrate giuridicamente come “matrimonio”.
Se allora dovessimo proporre una riflessione che esuli dalla infuocata diatriba sulla moralità delle unioni gay, sulla messa all’indice di Paesi Europei come la Spagna, e ci dovessimo attenere solo al “mondo famiglia” tradizionalmente inteso, si aprirebbero le porte, a mio avviso, di una desolante casistica tutta italiana. Mi riferisco, ad esempio, alla consuetudine, più culturale che religiosa, del “matrimonio riparatore”, a quelle spose in abito bianco e pancione che giungono “consapevoli” all’altare. Si tratta dunque ancora della convinzione che il matrimonio sia la sola scelta per creare un nucleo familiare sano o è l’aver fatto “quello che corrisponde ai miei gusti”, per citare mons. Monari, a rendere possibile, ed inevitabile, tale unione?
Ed ancora, quanti giovani oggigiorno convivono per anni, hanno figli, consolidano la loro relazione e decidono di sposarsi solo dopo aver raggiunto una stabilità economica, un lavoro sicuro, aver terminato di pagare la cucina e gli elettrodomestici?
O più prosaicamente, quanti i giovani che aspirano al matrimonio in chiesa perché “sta bene”, perché s’indossano abiti da cerimonia e si finisce poi tutti al ristorante, parenti, amici ed orchestrine? E magari dopo sei mesi arrivano le prime pratiche per la separazione.
Perché “sta bene”. E’ questa la voce interiore che muove l’italiano medio, magari quello di provincia, attaccato ancora ai valori di un tempo, in una società che non lo comprende e che si evolve troppo velocemente e che vuole permettere che le persone non si giurino fedeltà eterna ma che magari eternamente vivano insieme in armonia.
Per chi è profondamente credente, lontano da quegli atteggiamenti dettati più dalla cultura popolare che da una fede sincera, il problema della mercificazione del matrimonio paventata dai Dico non si pone e non si dovrebbe affatto porre. Per coloro che credono che l’unione fra un uomo ed una donna sia il fondamento dell’umanità e frutto dell’amore del Padre, la soluzione delle “coppie di fatto” non deve creare dubbi morali. Per tutti gli altri, per chi non è credente, esistono già i matrimoni civili.
Matrimoni che, se alle volte fanno storcere ancora il naso all’opinione pubblica paesana, tuttavia costituiscono una valida alternativa al contratto religioso. Ed all’interno di entrambi la procreazione, o l’adozione, è sentita come una benedizione.
Ed allora, tentando di svelare il nascosto, la vera paura è che tramite i Dico si arrivi al diritto di adozione per le coppie gay. E’ questo il nodo, e null’altro. Ma questo aspetto è giuridicamente risolvibile.
Ciò che risulta irritante è la sensazione che con i Dico magari quei giovani poco convinti, quelle persone che sono costrette a riparare al misfatto, o quelle coppie stremate da maratone di fidanzamenti decennali, possano scegliere la strada che porta agli uffici comunali piuttosto che verso la propria parrocchia.
Francesco Accattoli